martedì 31 dicembre 2013

CHAPTER IV






 Terra dei Mucchi di Pietre, cap IV


4. Lèkere.


La strada dell’altopiano li portò subito fuori dal villaggio, sno­dan­dosi agilmente tra gli ostacoli del terreno ed adden­trandosi presto tra i grandi carpini neri, le roverelle, i lecci e le altre querce seco­lari del bosco. Qui, gli unici rumori udibili intorno si ridussero presto al discontinuo tamburellare ottuso degli zoccoli e a qualche variegato richiamo di uccello.
Un grosso cervo, con im­ponenti palchi, scartò e fuggì via davanti a loro a raggiungere le sue femmine, sicuramente nascoste più in là, con qualche piccolo.
Do­po poco, un minaccioso cinghiale maschio, tutto nero, con enormi e minacciose difese li guardò interdetto da una balza poco lonta­na, come indeciso sul da farsi: poi d’im­provviso si voltò, per aprirsi con gran rumore una strada nella macchia più fitta...

Norax, nel suo procede­re assente e trasognato, ebbe quasi l’impressione che nulla potesse distoglier­lo dal suo compito, né uomo, né bestia feroce. Sorrise tra sé di quella piacevole sensazione e qualche tempo dopo stava ancora sor­ridendo, seguendo i propri pensieri, quando Lèkere - senza neanche guardarlo - li interruppe, dicendo: “Ma se dovessimo incontrare un orso, la penseresti diver­samente, visto che quello non cercherebbe solo tuberi di ciclamino o radici di palma na­na”.
Sorpreso e al tempo stesso un po’ umiliato per quella inaspettata e curiosa intrusione nei suoi pensieri, Norax ri­spose imbronciato: “Non ci sono orsi qui, né tanto meno palme nane”. Ma Lèkere, sorridendo e scostando dal viso lunghe ciocche di capelli neri che andavano a coprirle gli occhi, ribatté: “Ci sono, invece, an­che se gli orsi vengono malvolentieri così vicino allo scoperto, in una zona del bo­sco così frequentata, e sono rari i tratti aperti e sabbiosi che possano accogliere le palme nane. Ma quan­do un giorno avre­mo più tempo, in un’altra occasione, ti mostrerò gli uni e le altre. Perché ricordati, Norax, qualunque cosa avvenga, noi due avremo altri giorni insieme”.

Era inutile discutere con Lèkere: la ragione era sem­pre sua. Non per protervia o per ingiustizia, però: Norax sapeva che, in qualsiasi ragionamento, in qualsiasi dubbio da sciogliere, le risposte, le soluzioni e le opinioni di Lèkere erano sempre quelle più giuste, più adatte e più sicure.
Per una magia che era già insita nel suo nome stesso, Lèkere sape­va che cosa era giusto; sapeva dove trovare l’ac­qua nella terra e quanto a lungo sarebbe piovuto; sape­va leggere nella mente e nel cuore di uomini ed animali e poteva confonderli o dar loro il coraggio. Ella riusciva a leggere, nell’acqua del pozzo sacro, i segni del cielo per ogni cosa: la data per le semine e per l’inizio delle altre stagioni, così come i periodi fausti per i matrimoni e per le altre feste. Le sue conoscenze erano ancor più vaste di quel che si potesse attribuirle e sicuramente ciò che ella non sapeva leggere, o non conosceva già, riusciva co­munque ad indovinare, non sempre facilmente, attraverso procedimenti segreti. Se poi esistesse real­mente qualche cosa al di là della portata dei suoi poteri, nessuno era in grado di dirlo: ella lo nascondeva bene dietro i suoi occhi grandi e profondi e con un ineffabile sorriso malizioso...
Lèkere era, da anni, la Bithia di Tal-Ur.
Se pure altre ve n’erano state prima, come certamente altre ve ne sarebbero state dopo, era lei che - a giudizio unanime - aveva pieno diritto a questo nome e a questo ruolo. Per lei pellegrini ed intere famiglie venivano da lontano, durante tutto l’anno, fino a Tal-Ur, cercando aiuto e conforto e di fatto trovandolo. Sicu­ramente, anche le sue arti avevano contribuito ad aumentare la fama del Grande Sa­cerdote: in quale misura, non era dato sapere ai mortali...
Ma la notizia dei prodigi ope­rati nel Grande Circolo di Tal-Ur si spingeva molto al di fuori dell’altopiano: da una parte fino a tutta la Costa vicina, e dall’altra ben oltre il lago lungo, fino alle genti della montagna e forse oltre ancora. Sicuramente, il suc­cesso commerciale di Mago-Twrshna - il mercato sul grande fiume navigabile - era dovuto proprio alla vicinanza di Tal-Ur e a lui, il Grande Sacerdote dai molti nomi oscuri, che portava la luce nel buio...

Certo, Lekere di Tal-Ur non era famosa nel Mondo intero così come lo era la Pizia di Delfi. Ma tutto ciò che Lekere riusciva a fare, lo faceva per quelle stupefacenti doti, che gli dei le avevano generosamente elargito alla nascita e che probabilmente si sarebbero ripresi per sempre, alla sua morte.
Invece, la Pizia di Delfi aveva sempre bisogno di ricevere in sé il fiato del Dio Apollo per ogni oracolo che le venisse richiesto. Infatti, questa era soltanto un debole essere umano, che restava terribilmente esausto dopo la prova suprema della comunione col dio...
La Pizia sedeva sull’epithema concavo posto in cima all’alto tripode oracolare. Nuda, a gambe divaricate, ella riceveva i vapori che salivano verso di lei dal di sotto, attraverso una profonda spaccatura della terra. E non provava vergogna alcuna, perché questo le era richiesto dal Dio. Né i sacerdoti, né gli uomini, né altri la guardavano con desiderio, perché ciò sarebbe stato un sacrilegio.
E questo prodigio proseguiva, fino a quando la Pizia, ormai totalmente rapita e riempita dal Dio Sole, rendeva finalmente manifeste le sue rivelazioni, sollecitata dalle domande ansiose dei fedeli.
Preda della violenta forza divina, ella si doveva spesso aggrappare al sacro arbusto d’alloro, che tremava e stormiva tutto, allora, insieme con lei. Ella ne masticava le foglie amare e talvolta un rivolo di bava verde le sfuggiva da un angolo della bocca. Intanto parlava, con un eloquio lento, con una voce spaventosa, pronunciando frasi ermetiche ed incomplete, difficilissime a capirsi, interrotte da urla di gioia, gemiti spaventati e parole monche o completamente oscure.
Spesso, la Pizia restava profondamente segnata da quell’esperienza estrema. La comunione con il Dio Pizio la consumava rapidamente. A volte, ne moriva. E allora si rendeva necessario trovare un’altra eletta, che fosse gradita agli dei e potesse sostituirla degnamente in quel compito prezioso...

Lèkere, lei no, non faceva ricorso a nulla di simile. Almeno, nessuno aveva mai raccontato di spettacoli così impressionanti, che la riguardassero. Sembrava piuttosto che la dimestichezza con i poteri divini conferisse a Lèkere una profonda sicurezza, una serenità che ella sapeva infondere anche agli altri. La fama di Tal-Ur si accresceva per i prodigi ed i misteriosi poteri che le si attribuivano...
E alla fama di Tal-Ur, almeno in parte, in fondo era dovuta anche la dipartita di Norax dalle città marinare con la richiesta di adozione presso la Vera Gente.
Ciò era accaduto solo dopo quell’infelice giorno di lutto, in cui egli aveva subito la perdita dei genitori nel naufragio presso lo scoglio del Mal Vento, da cui soltanto lui si era salvato, tremante e bagnato come un pulcino, orfano e solo.
Le parole di Lèkere interruppero nuovamente il corso dei suoi pensieri, come se lei potesse veramente leggerli: “Ma non volevo certo rattristarti così Norax, né indurti a lugubri pensieri: pensa invece al viaggio avventuroso che ti attende dopo avere compiuto questo, e che ti permetterà di vedere altre genti, altri costumi, altri paesaggi sulla costa dove sorge il sole!”.
Gli occhi di Lèkere brillarono di entusiasmo e gli parlarono di coraggio e di avventura, riflettendo il sole che ormai era basso nel cielo e che li illuminava meglio, tra il primo diradarsi degli alberi.
Lèkere indossava una veste lunga di lino grezzo ed un mantello viola scuro. Non si copriva mai il capo e il volto con veli o panni, come invece spesso facevano le altre donne: oggi non portava neanche l’alto cappello appuntito, distintivo della casta sacerdotale, che le sarebbe stato di impiccio. Il sole illuminava di luce rossastra il disegno che lei portava ricamato sul petto: una colomba bianca posata tra le corna di un toro, sulla cui fronte campeggiava una familiare doppia ascia. Era un motivo caro a Ennin, la Grande Madre a cui ella doveva i suoi misteriosi poteri e per conto della quale li dispensava con amore sulla sua gente...
Ormai percorrevano un tratto più brullo di altopiano, quasi privo di piante alte, e capricciosi refoli di aneto e rosmarino presero a titillare le loro narici mentre trotte­rellando lasciavano alla loro sinistra la strada per Mago-Twrshna ed alla loro destra quella per la cava delle pietre sacre. Qua e là si aprivano, ora più spesso, delle valli profonde in cui la vegetazione era fitta e alta e nel cui fondo si indovinavano - o si udivano scorrere - dei rigagnoli. Alcune valli erano ampie e accoglienti, altre strette e inaccessibili, ma tutte erano selvaggiamente belle, in qualche modo inquietanti e sempre struggentemente profumate...
Norax sapeva che perfino i cacciatori vi si avventuravano prudentemente in gruppi o in catene, tenendosi continuamente l’un l’altro a portata di voce o di flauto - essi stessi evitando le valli più pericolose.
Perdersi poteva significare non tornare mai più a casa.
Nessun cervo poteva avere tanto valore. Se esso riusciva ad imboccare incolume certe ripide strade, pericolose ed impervie, sarebbe stato graziato. Sfuggendo con furbizia alle laboriose reti di robusto lino, alle sibilanti fionde di cuoio ed agli imponenti archi - intrecciati di legno, tendini e d’osso - avrebbe meritato il dignitoso rispetto del cacciatore ed il risparmio della vita.
“Ecco” - disse a un certo punto Lèkere, indicando una valle più ampia, nella quale un sentiero adesso appena riconoscibile sceglieva di inoltrarsi, scendendovi capriccioso - “Ecco la tua strada, Norax: al guado passa sulle pietre, io ti dico, anche se ti bagnerai fino alla vita; diffida dell’erba troppo verde intorno. Dopo il guado, la strada sarà più grande e più in piano. Forse incontrerai qualche pastore che sposta le greggi. Se sarai fortunato, qualcuno su di un carro ti renderà più spedito e più comodo il viaggio. E poi, il bagaglio si assesta nell’andare: sei partito aglio, non tornare cipolla... Nulla ti accadrà ad impedire che ci si incontri ancora, se sarai saggio e attento come puoi esserlo, Norax: così io ti dico adesso e così sarà”. E con queste ultime parole di avvertimento e di augurio la Bithia Lèkere dai grandi occhi magici e profondi lo baciò appena sulle labbra e subito dopo lo lasciò solo.
Norax restò, confuso ed euforico, a guardare la sagoma tozza dei muli e quella snella della maga, mentre andavano via, gradatamente scomparendo nell’ovattato silenzio e nella lontananza dell’immenso altopiano, dirigendosi verso il lato scuro del tramonto, verso compiti diversi dai suoi, per uno stesso fine.

Elmo di guerra

Rare 

Tlingit war helmet 

discovered at museum




 The mystery began to unfold when Museum staffers began to select objects from the over 200,000 items in the Museum’s collections for a new display titled “People of the Northwest Coast.” Dr. Ellen Savulis, the Science Museum’s Curator of Anthropology, was intrigued by one of the items described in collections records as simply an “Aleutian hat.” 
Stored on a shelf for over 100 hundred years, a rare anthropological treasure was recently discovered in the Springfield Science Museum’s permanent collections. Museum Director David Stier, who has worked in museums collections for almost 30 years, describes the discovery as nothing less than “the find of a lifetime” [Credit: Springfield Museum] The object was relatively large, ornately carved, and made from a single piece of dense wood. Although Dr. Savulis’ main area of expertise is Northeastern United States archaeology, she had the foresight to question whether hats made by the Unangax, the inhabitants of the Aleutian Islands, were typically made from such dense wood. Upon further investigation, Dr. Savulis found that the only type of wooden hat made in the treeless Aleutians is the hunting hat or visor, made from a thin plank of driftwood bent into a lopsided cone. None of this information matched the object she had in front of her. Dr. Savulis suspected that she had a helmet of some kind, and enlisted the help of Steve Henrikson, Curator of Collections at the Alaska State Museum in Juneau.  After hearing the description and an extensive viewing of artifact images, Mr. Henrikson responded enthusiastically, “This is a Tlingit war helmet, absolutely, no question!”  He went on to say that “it’s very rare - there are less than 100 Tlingit war helmets in existence that we know of. I’ve been studying them for over 20 years and I’m sure I’ve seen most of them.” Museum records show that the artifact was accepted into collections sometime after 1899, the year that the Springfield Science Museum (formerly the Museum of Natural History) moved into its own building at the Quadrangle.  The source of the artifact was not known, and it carried the simple label “Aleutian hat.” Having limited experience with cultural materials, museum specialist Albertus Lovejoy Dakin accepted the accuracy of the object’s label and entered it as such in the collection records. Some 40 years later the artifact received a permanent museum collection number from museum director Leo D. Otis, who still had no reason to dispute the “Aleutian hat” claim. There the artifact remained in its spot in the permanent collections, carefully preserved and unheralded, waiting to be found. According to Mr. Henrikson, we now know that the object is indeed a war helmet from the Tlingit people of southeast Alaska.  The style of the carving and decoration on the helmet (probably the emblem of a clan) dates it to the mid-19th century or earlier. With the mass importation of firearms to the region in the mid-1800’s, this sort of body armor became relegated to ceremonial uses. Today, a few helmets are still brought out at ceremonial gatherings, such as potlatches, to commemorate prominent events and honor past clan elders.  Because they are associated with combat, the helmets are not actually worn on the head during such peaceful gatherings, but are instead held in hand or perhaps held over the head of someone needing spiritual support. Henrikson estimates that there are approximately 95 war helmets in existence today, mostly in large museum collections. Many of these were collected by Russian explorers on the battlefield following clashes with the Tlingit. The largest collection of Tlingit armor is at the Peter the Great Museum of Anthropology in St. Petersburg. Beginning as protection for Tlingit warriors in battle, war helmets today serve the Tlingit as healing reminders of their rich and ancient history.  A glimpse of this rich history can be seen starting Thursday, December 26, when the helmet will be placed on display for the first time since arriving in Springfield over a century ago. Source: Springfield Museum [December 18, 2013]

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Pattern matematico.

Mathematical pattern 

describes hunter-gatherer movement.


A mathematical pattern of movement called a Lévy walk describes the foraging behavior of animals from sharks to honey bees, and now for the first time has been shown to describe human hunter-gatherer movement as well. The study, led by University of Arizona anthropologist David Raichlen, was published today in the Proceedings of the National Academy of Sciences. One of the last hunter-gatherer tribes on Earth, the Hadza people of Tanzania still hunt on foot with traditional foraging methods. "If you want to understand human hunter-gatherer movement, you have to work with a group like the Hadza," said UA anthropologist David Raichlen, who led the study [Credit: Brian Wood/Yale University] The Lévy walk pattern appears to be ubiquitous in animals, similar to the golden ratio, phi, a mathematical ratio that has been found to describe proportions in plants and animals throughout nature. "Scientists have been interested in characterizing how animals search for a long time," Raichlen said, "so we decided to look at whether human hunter-gatherers use similar patterns." Funded by a National Science Foundation grant awarded to study co-author Herman Pontzer, Raichlen and his colleagues worked with the Hadza people of Tanzania. The Hadza are one of the last big-game hunters in Africa, and one of the last groups on Earth to still forage on foot with traditional methods. "If you want to understand human hunter-gatherer movement, you have to work with a group like the Hadza," Raichlen said. 
Members of the tribe wore wristwatches with GPS units that tracked their movement while on hunting or foraging bouts. The GPS data showed that while the Hadza use other movement patterns, the dominant theme of their foraging movements is a Lévy walk – the same pattern used by many other animals when hunting or foraging. "Detecting this pattern among the Hadza, as has been found in several other species, tells us that such patterns are likely the result of general foraging strategies that many species adopt, across a wide variety of contexts," said study co-author Brian Wood, an anthropologist at Yale University who has worked with the Hadza people since 2004. "This movement pattern seems to occur across species and across environments in humans, from East Africa to urban areas," said Adam Gordon, study coauthor and a physical anthropologist at the University at Albany, State University of New York. "It shows up all across the world in different species and links the way that we move around in the natural world. This suggests that it's a fundamental pattern likely present in our evolutionary history." The Hadza people of Tanzania wore wristwatches with GPS trackers that followed their movements while hunting or foraging. Data showed that humans join a variety of other species including sharks and honeybees in using a Lévy walk pattern while foraging [Credit: Brian Wood/Yale University] The Lévy walk, which involves a series of short movements in one area and then a longer trek to another area, is not limited to searching for food. Studies have shown that humans sometimes follow a Lévy walk while ambling around an amusement park. The pattern also can be used as a predictor for urban development. "Think about your life," Raichlen said. "What do you do on a normal day? Go to work and come back, walk short distances around your house? Then every once in a while you take these long steps, on foot, bike, in a car or on a plane. We tend to take short steps in one area and then take longer strides to get to another area." Following a Lévy walk pattern does not mean that humans don't consciously decide where they are going, Raichlen said. "We definitely use memories and cues from the environment as we search," he explained, "but this pattern seems to emerge in the process." In future studies, Raichlen and his colleagues hope to understand the reasons for using a Lévy walk and whether the pattern is determined by the distribution of resources in the environment. "We're very interested in studying why the Hadza use this pattern, what's driving their hunting strategies and when they use this pattern versus another pattern," said Pontzer, a member of the research team and an anthropologist at Hunter College in New York. "We'd really like to know how and why specific environmental conditions or individual traits influence movement patterns," added Wood. Describing human movement patterns could also help anthropologists to understand how humans transported raw materials in the past, how our home ranges expanded and how we interact with our environment today, Raichlen noted. "We can characterize these movement patterns across different human environments, and that means we can use this movement pattern to understand past mobility," Raichlen said. "Also, finding patterns in nature is always fun." Author: Shelley Littin | Source: University of Arizona [December 23, 2013] 

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DNA Antico: novità.

Da Dieneke's Antropology blog, 26 12 2013: 

Ancient DNA: what 2013 has brought

A summary of some major studies, news articles and reports:
  • 400,000 year old Homo heidelbergensis in Iberia had mtDNA similar to Middle Paleolithic Denisovans from the Altai. This is important because of the age of the sample which opens up new vistas for ancient DNA research and because it is the first  link to the mysterious Denisovans.
  • Neandertal inhabited the same cave where the Denisovan fingerbone was found. Denisovans had Neandertal admixture as well as admixture with an unknown "ultra-archaic" group; Eurasians have admixture from a Neandertal most similar to the Mezmaiskaya sample from the Caucasus; East Eurasians have a little bit of Denisovan admixture, while Australasians have a lot more; and all Sub-Saharan Africans seem to have a little bit of Neandertal admixture too, via West Eurasians during the Holocene.
  • A ~24,000 year old Upper Paleolithic Siberian from Mal'ta is related to Native Americans who are a mix of it and East Asians. Mal'ta was related to West Eurasians and not to East Eurasians. It belonged to Y-haplogroup R* and mt-haplogroup U*.
  • On the other hand, a ~40,000 year old from China was definitely East Eurasian.
  • Europeans are a 3-way mix of Neolithic farmers, Mesolithic hunter-gatherers and aforementioned UP Siberian-like "Ancient North Eurasians"; Early LBK farmers from Central Europe resemble later Oetzi,Swedish farmers, and probably Iberian farmers too. They also had mysterious "Basal Eurasian" ancestry from the deepest split of the Eurasian tree. Mesolithic Europeans had lots of Y-haplogroup I.
  • Ancient mtDNA reveals that something happened during the late Neolithic and early Bronze Age in Germany; the populations from that time are the first ones who appear quasi-modern in their haplogroup frequencies. It also turns out that hunter-gatherers didn't disappear in Germany after the LBK came along. And mtDNA haplogroup H, most frequent in modern Europeans, established itself around the Mid-to-Late Neolithic.
  • West Siberia had a West/East Eurasian admixed population during the Bronze Age, like earlier ages.
  • Lots of hints of interesting events in the European steppe too.
  • Modern Tuscans probably not descended from ancient Etruscans; discontinuity seems to be the rule.
  • Minoans were fairly regular Europeans, not North African (they had little mtDNA U, though, maybe likeMesolithic Greeks).
  • A lot more mtDNA haplogroup U from really old Europeans, and mtDNA haplogroups M+N date to ~77 thousand years ago.
  • Mesolithic west Europeans had blue eyes, but Neolithic Europeans had brown ones and European steppe populations "darker" than modern Europeans). ~8,000 year old Europeans had dark brown or black hair (at least two of them).

Pro e contro del resuscitare animali estinti

The pros and cons of resurrecting

extinct animals


 Scientists from across the world have “scanned the horizon” in order to identify potentially significant medium and long-term threats to conservation efforts. Thylacine, or Tasmanian tiger Credit: E.J. Keller Baker/WikiCommons] Resurrection of several extinct species, the increasingly accelerated loss of wild rhinoceroses and a disastrous financial response to unburnable carbon are just some future global conservation issues flagged up in this year’s Horizon Scan, recently published in Trends in Ecology and Evolution. Professor William Sutherland and Dr Mark Spalding are amongst the 18 scientists who took part in this year’s Horizon Scan, seeking to identify potential future conservation issues in order to reduce the “probability of sudden confrontation with major social or environmental changes”. One such plausible issue is the resurrection or re-construction of extinct species, such as the woolly mammoth, passenger pigeon or the thylacine (a carnivorous marsupial). However, though there may be many benefits to the restoration of these animals, such a high-profile project could lead to attention and resources being diverted from attempts to thwart current threats to non-extinct species’ survival. Professor Sutherland said ‘There has been discussion of this idea for some time but it is now looking more practical and the idea is being taken seriously. A key issues is whether this is really a conservation priority’. Though the last woolly mammoth died around 4000 years ago, methods such as back-breeding, cloning and genetic engineering may lead to their resurrection. Not only could these extinct animals, and others such as the thylacine and the passenger pigeon, be re-constructed and returned to their native environments, they could potentially be used to “provide tools for outreach and education”. However, though this would be a conservational triumph, it could also hamper efforts to protect animals that are currently facing extinction, as both attention and resources would be diverted from preserving existing species and their habitats. Furthermore, there has not been any investigation into the “viability, ethics and safety of releasing resurrected species”, nor the effect their presence may have on indigenous flora and fauna. Another potential conservational issue identified by the Horizon Scan further highlights the problems facing species today. The loss of wild rhinoceroses and elephants is set to reaccelerate within the next few years, partially stimulated by a growing desire for ivory and horn. In 2013, it is estimated that over 600 rhinoceroses were poached for their horn in South Africa alone, out of a total global population of less than 26,000. Though an increased human population and proximity to growing infrastructure is partially responsible, organised crime syndicates and intensive hunting carry the weight of the blame. In the Asian countries that use it, rhinoceros horn is more expensive than gold. Demand for the precious horn is ever increasing, resulting in elevated levels of poaching. If attention and resources are diverted from the protection of these majestic animals, we may have yet more candidates for resurrection in the future. Altogether, this group of scientists identified the top 15 potential conservation issues (out of an initial group of 81 issues). In addition to the above topics, extensive land loss in southeast Asia from subsidence of peatlands, carbon solar cells as an alternative source of renewable energy, and an emerging fungal disease amongst snakes, have also been voted as plausible threats that need to be stopped before they can be realised. 

Source: University of Cambridge [December 24, 2013]
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giovedì 19 dicembre 2013

Chapter Three






Terra dei Mucchi di Pietre, cap III

3. Il Messaggio.


"Hyksos: il nome che gli abitanti delle grandi sabbie die­dero ai Popoli Naviganti del mare. ‘Signori del Nord’, i po­poli per essi allo­ra sconosciuti, che per 20 generazioni seppero contendergli il ferti­le delta del Grande Fiume Atlante prima di esserne scacciati”.

Norax si fa­ceva per metodo un dovere di ripetere con diligenza tutto ciò che sapeva su un argomento, quando il suo Maestro lo interro­gava al riguardo. Proprio come egli stesso gli aveva insegnato a fare.
Proseguì, riprendendo fiato: “Tu - Mae­stro - ti riferisci dunque a Mandras, primo condottiero di tutti gli Hyksos, grande guida dei Popoli Naviganti, figlio primogenito di Khamudi,  a sua volta figlio di Salitis, figlio di Khian, figlio di Apachnan, figlio di Sharek e attraverso loro discendente per primogenitura di Apophis, cioè colui che riconquistò ai Sartna il delta del più grande dei fiumi, che rende fertile il deserto con le proprie acque e perciò si fregiò del titolo di Faraone, trasmettendolo ai suoi discendenti. Il grande Mandras, fonda­tore nella nostra Terra del Sole di Kur, l’alta città dai due porti. Mandras, che ha indi­cato ai Canauna la rotta per la città d’argento di Tartesso. Mandras, già cantato - ancor vivo - nelle innumerevoli canzoni intorno al fuoco dai Twrshna, dai Lukka, dai Shalasha e dai Sartna, che tutti insieme sono i discendenti degli Hyksos in tutte le isole del Grande Mare!”.

Divertito dalla fluente, inarrestabile li­tania di elogi e di titoli, il Grande Sacerdote infine la interruppe alzando il palmo della mano, con l’evidente soddisfazione che traspariva dallo sguardo sorridente e che gli rende­va un po’ chioccia la voce: “Lo conosci, vedo. Tutto diventa quindi un poco più facile: puoi risparmiarmi la nobile ge­nealogia del grande Mandras, condottiero dei Popoli del Mare, che ho già dimenticato e che non dubito tu mi ripeterai per intero un’altra volta, in un’altra occasione. Egli non si rifiuterà di tornare a trovarci, spero. Non se gli farai il mio nome e gli dirai il motivo dell’invito”.

Nelle parole che tu hai usato Maestro?” - chiese, incerto, il discepo­lo, co­minciando finalmente a comprendere.
No” - rispose il Sacerdote lentamente, soprappensiero - “Copierai un disegno da un mio vecchio rotolo di papiro che ti mo­strerò e glielo porterai, in segreto. Quella sarà la prima parte del messaggio.  Inoltre, gli riferirai che quegli stessi oggetti, che furono raccolti sulle nostre spiagge in tempi remoti, sono oggi riapparsi in più punti della costa, in modo allarman­te.
Essi sembrano confermare quelle voci che marinai inquieti hanno riportato, da diverse rotte. Ho sentito dire che l’isola di ‘Yrnm è stata devastata e che nessuno si è salvato.
E’ per questi fatti ed altro ancora - gli dirai - che ho deciso di controllare di per­sona se vi sia la necessità di difendersi.
Ma per fare ciò io so bene d’avere biso­gno del suo giudi­zio esperto e del suo aiuto, come pure - in verità - dell’aiuto fidato di altri...”.

Quindi il Gran Sacerdote fissò nuovamente dritto negli occhi No­rax, ponendogli ambedue le mani sulle spalle: “Ti racco­mando an­cora il segreto ed il limite dei tre giorni. E preghiamo insieme En­nin che Mandras non sia inopportunamente per mare proprio adesso, quando ci serve qui... Ma ora su, vieni con me, Norax, perché molto lavoro ci attende impaziente...”.

La nuova co­pia non fu eseguita sulle laboriose e preziose stri­sce di papiro, bensì - più praticamente, ma con infinita cura e precisione - sul ro­ve­scio interno di una mastruka di pelle di pecora. Norax apprese, non senza un moto di simulato orrore, che avrebbe dovu­to indossarla sopra la veste di lino, che già da sola sarebbe stato abbigliamento più che suffi­ciente in quella stagione.
Il Grande Sacerdote però pre­venne ogni obiezione: “Partirai di sera, questa sera stessa, quindi viaggerai di notte e di mattina presto e, pertanto, non mo­rirai di caldo. I miei inchiostri sono i migliori che esistono e li faremo as­sorbire completamente per poi asciugarli del tutto al fuoco. Ma egualmente tu non dovrai bagnarti, né - bada! - sudare troppo, ché essi non abbiano a scolorirsi. Troppo importante é il messag­gio, per com­prometterlo così leggermente...”.
Il Gran Sacer­dote, volendo sottolineare la assoluta ineluttabilità di quell’or­dine, nel pronunciare l’ul­tima frase distolse lo sguardo dalla pelle di pecora, per fissare intensamente Norax, che se ne sentì letteralmente trapassato e inchiodato alla propria responsabilità.

Vista l’ur­genza - proseguì il sacerdote - andrai per la strada alta e sarai ac­compagnato a dorso di mulo fino al bordo dell’altopiano. Da lì proseguirai a piedi, come per una normale visita agli amici, senza mai tradire il vero motivo del tuo viaggio. Una volta giunto ad Othoca dovrà essere tua l’iniziativa, come tue saran­no la prudenza e ogni responsabilità dei tuoi atti. Tornerai non appena raggiunta la certezza del successo, o del fallimento. Ma non dovrai fallire!
Non ho altri consigli da darti, né richieste da farti, credo” - E nel dire ciò, il sacerdote corrugò la fronte, fissando un punto qualunque per terra, come per meglio ricordare tutto, o forse per nascondere il molto altro che avrebbe voluto dire al suo allievo.

In breve il piccolo bagaglio di Norax  fu prepara­to, i muli bardati e legati in fila ed una più che appropriata scorta fu trovata in Lèkere. Proprio allora, infatti, Lèkere doveva recarsi alle cave per raccogliere pietre votive, erbe aromatiche e medicinali ed altro ancora (non si conoscevano mai con tutta precisione gli impegni di Lèkere). In ogni modo, si trattava di svariati e gravosi compiti, per cui abbisognava di più muli da trasporto, che sarebbero tornati lenti e pesanti per il carico, ma che all’andata erano disponibili anche per portare più di un solo passeggero...
Il sole cominciava a ca­lare e di pari passo cominciava lentamente a scemare l’animazione del laborioso pomeriggio. Il fuoco di guardia non era ancora acceso, ma qua e là qualche altro fuoco stava già prendendosi ghiotta cura del bottino dei cacciatori. Questi ultimi, poco discosti, controllavano la cottu­ra, bevendo e ri­dendo insieme in gruppetti chiassosi e fanfaroni - come sempre e ovunque sono in tutte le parti del mondo i capannelli conviviali, al­legri e bugiardi, dei cacciatori e dei pescatori...
Giunto il momento di partire il Sa­cerdote sa­lutò il suo giovane ed inesperto pupillo, come d’abitudine faceva quando questi si allontanava per qualche breve commissione, passandogli una mano sul capo e poi dan­dogli un ormai abituale buffetto sulla nuca, quasi a punirlo in anticipo per qualche marachella che immancabilmente avrebbe commesso. Subito dopo, però - eccezionalmente - gli appese al collo con gesto solenne il proprio coltello sacrificale, simbolo an­tico del sacro gruppo dei sacerdoti, dell’alto potere che le divinità gli conferivano, con tutto il dignitoso peso degli obblighi ad esso correlati. “E’ delle tua misura, adesso”- fu il semplice commento.

L’apprendista rima­se impietrito - inespressivo nella propria sorpresa - e quasi senza fiato, incredulo.
Questo gesto nuovo e grave del suo Maestro sanciva ad un tempo la sua investitura e la massima im­portanza di una missio­ne che quindi non doveva fallire per alcun motivo. Un gesto può valere più di mille parole...
Per Ennin - gli sussur­rò il Sacerdote con la sua voce profonda e suaden­te, adesso quasi impercettibile - Non sei più un ragazzo, Norax: quindi non compor­tarti come tale. Ed ora vai!”.
Norax si portò verso il mulo più vicino col proprio bagaglio, con passo impacciato ed espressione assente.
Lèkere e il Sacerdo­te si sussurra­rono brevemente qualcosa con fare com­plice, che egli non udì, ma immaginò si riferisse a lui. Quindi tutti si scambiarono cenni di salu­to, infine con un peren­torio e sonoro ‘Ahiò’ da parte di Lèkere la breve co­lonna trotterellò via, in uno scalpiccio di zoccoli, lasciandosi dietro, in una nu­voletta di pol­vere, un sacerdote corrucciato e pensieroso...

“Che non si può imprigionare in una piccola olla il grande mare, questo io so fin troppo bene. Ma ogni volta che ti ho guardato dentro, mio piccolo amico, io non ti ho visto il fondo. E per questo io credo che non mi deluderai”...

Chapter II



Terra dei Mucchi di Pietre, cap II

2. La prima Missione.


La figura - snella in controluce - volse il capo, quindi scomparve alla vista, per qualche attimo.
Ricomparì quasi subito alla base della fornace, correndo: “Sì, Maestro” - già lo si sentiva gridare mentre irriveren­temente saltava il basso muro del recinto sacro. “Abbiamo quasi terminato il riem­pimento” -  soggiunse subito, appena fu arrivato al fianco del Grande Sacerdote e prima che questi potesse parlare.
Ma già lo guardava con occhi grandi, interrogativi e rispettosi ad un tempo.
Trascorsa una pausa, lunga quanto bastava al silenzio per ricomporsi, il Sacerdote incominciò a dire, guardando lontano: “Figliolo, puoi la­sciare a me quel compito, adesso”. Quindi riprese, questa volta fermando lo sguardo fisso negli occhi del suo allievo (il che, sapeva, lo metteva sempre in grande soggezione): “Tu da parte tua devi assumerne un altro, che credo ti farà piacere per la parte più facile e che invece mi di­spiace do­verti affi­dare per la parte più difficile”.

Norax sapeva bene che un’introdu­zione così lunga non presa­giva nulla di buono, tanto più che non solo era incompren­sibi­le, ma in essa traspariva una preoccupazione, un’ansia, che facevano apparire il Grande Sacerdote suo Maestro più stanco e più vecchio. Anzi, si scoprì - chissà perché - a considerare che in realtà, poi, egli non sa­peva affatto quanti inverni avesse il suo Maestro.
L’atten­zione e la curiosità ciononostante si resero più evi­denti negli occhi del ra­gazzo, neri e vivaci come quelli di un gatto, vieppiù fissi sul volto del Sacerdote. Norax era tutto teso ad in­tuire - prima ancora che egli parlasse - e poi a sentire tutto quanto vi fosse dentro e dietro alle sue parole - quando finalmente egli le avesse pronunciate e Norax le avesse potute udire. Eh, sì: Norax era un apprendista un po’ tormentato, ma molto volenteroso.
Norax sape­va bene, dalla propria personale esperienza, che il Gran Sacerdote spesso parlava con parole oscure, a volte ambi­gue. Per spiegarle eventualmente in seguito, a suo piacere e solo quando lo avesse ritenuto opportuno, sempre dando prova di grandissime preveggenza e sag­gezza.
Ma questa volta no: stava dando ordini chiari, modificando con parole semplici e dirette le consuetudini ed i metodi che lui stes­so aveva stabilito con altrettanta chiarezza in precedenza con tutta la popolazione che gravitava intorno a Tal-Ur.

Disse il Sacerdote: “Devi fare un nuovo viaggio a Sirdan, il tuo villaggio” - A queste parole che non ammettevano replica, il ragazzo sorrise di piacevole sorpresa, senza però interrompere - “Potrai naturalmente approfittarne per salutare la tua famiglia adottiva ed i tuoi scapestrati amici di laggiù”. L’espressione muta del ragaz­zo mostrò qui una sfumatura un po’ troppo carica di virgi­nea e compunta innocenza. “Ma ascoltami bene: avrai sol­tanto tre giorni e dovrai assolutamente trovare ed invitare qui una persona a parlare con me...”.
Il Sacerdote esitò un momento, in una delle sue calcolate pause, quasi lascian­do spazio per una prevedibile doman­da che invece il ra­gazzo non osò neppure formulare.
“Vedi, Norax” - riprese quindi il Sacerdote, rivelando parzialmente i suoi piani ed i suoi timori - “E’ giunto il momento di attraversare la no­stra terra, perché sento di dovere ormai controllare, di per­sona, alcuni strani avvenimenti e di dover raccogliere al­cune prove in­quie­tanti che ancora si possono osservare sulla costa dove sorge il sole”.
Il ra­gazzo emise un lungo e lieve so­spiro perplesso - perché sapeva che doveva esservi dell’altro, che forse non gli sarebbe stato detto - mentre con passo consuetudinario e uniforme la coppia si dirigeva alla capanna del Grande Sacerdote.
Questi nel frattempo proseguì: “Io non so più come si chiama la persona che per me tu devi convincere a venire qui. Ma tu forse te ne ricorderai, oppure addirittu­ra lo conosci, o comunque ti sarà agevole scoprirne il no­me e trovarlo, perché non deve proprio essere un uomo scono­sciuto tra i pescatori dei grandi stagni di Sirdan...”.
Il Gran sacerdote si tolse il cappello a punta accingendosi ad en­trare nella sua capanna e facendo cenno al suo pupillo di precederlo. Poi continuò: “Ti ricordi, all’ultima festa di primavera, quel capo guerriero e pescatore - mai visto prima dalle nostre parti - che veniva trattato con insolita deferenza dagli abituali venditori di pesce salato?... In particolare - ricordi? - era quello che si mostrò così piacevolmente cu­rioso e interessato a tutti gli usi e costumi antichi della Vera Gente, e che volle essere accompagnato fino alla sorgente delle acque presso il Grande Fiume Twrshna?”.

La frase non era formulata come una domanda ma il tono del Sacerdote era interrogativo e incalzante.
Gli occhi del ra­gazzo si socchiusero nello sforzo inutile di ricordare, poi­ché alla festa di primavera innumerevoli compiti - e altret­tanti suoi tentativi di evitarli - lo avevano completamente assorbito.
“Ricordi? - aggiun­se imperterrito il Gran Sacerdote - che egli nel congedarsi, ringraziò solennemente per l’ospitalità e la cortesia e proclamò di volere un giorno ri­tornare a Mittsa - come lui chiamava nella sua lingua le benefiche acque calde di Mago-Twrshna?”.

Ma gli occhi del ragaz­zo conservarono la loro espressione smarrita, per cui il Sacerdote incalzò, attivamente frugando fra i propri apparentemente inesauribili ricordi: “Spesso, nei discorsi intorno a lui ricorreva un nome che non era, ahimè, il suo, ma che lo riguardava molto da vi­cino... vediamo... il suo suono era simile a ... ‘Ixos’...”
Il Gran Sa­cerdote aveva te­nuto prudentemente per ultima quella parole chia­ve, per­ché giustamente confidava nella possibilità - con essa - di aprire lo scrigno dei ricordi nella mente del ragazzo, fino a quel momento rimasto inespugnabilmente - se pur involontariamente - chiuso.
Ed infatti il ragazzo, improvvisamente folgorato da quel suono noto e dalla reminiscenza, sgranò gli occhi e proruppe in un esclamazione:Hyksos! Ma certo, Maestro!”.

Un impercettibile e fugace sorriso di soddisfa­zione incurvava appena le labbra del Grande Sacerdote. 

Chapter One




Terra dei Mucchi di Pietre, cap. I

1. Una Decisione.


Il sole era già alto. Nella penombra fresca della capanna tonda il ronzio mutevole e insistente degli insetti giungeva attutito in un mormorio suadente.
Nessun altro rumore poteva udir­si. Le attività familiari del villaggio si svolgevano nel silenzio, interrotto da qualche sommesso mormorio.
La lu­ce solare filtrava attraverso la parte terminale, piatta, del tetto a tronco di cono: formava sottili raggi animati, che anda­vano a stampare uno scintil­lante disegno sulla calda pavimentazione di sughero.
L’abituale quiete dei riti quotidiani contrastava con la tormentata agitazione che, silenziosa e quasi inespressa, albergava nella capanna...
Dentro di essa il Grande Sacerdote se­deva immobile sul suo scranno basso. Accigliato, guardava assorto attraverso le particelle di polvere danzanti nei raggi di sole, pensando.
Reggeva un rotolo di papiro - recante strani disegni - con una presa ormai inavvertita della sua mano sini­stra posata sul bracciolo, mentre la mano destra tormen­tava i riccioli grigi della sua folta barba brillante.
Il tempo era giunto, lo sapeva.
Il tempo di agire. Adesso, subito - pensava - liscian­dosi e ad un tempo torcendosi i baffi con il pollice e l’indice, con un gesto abituale. Anche se il Grande Sacerdote non aveva ormai più viaggiato da anni ed anni, ora sapeva di essere costretto ad af­frontare un viaggio forse lungo e certamente insidioso, che avrebbe richiesto molti accurati preparativi in un tempo molto, troppo breve e - soprattutto - nel rispetto del segreto più asso­lu­to. Non si poteva più rimanda­re.
Tutto era perfino troppo chiaro e ne trovava conferma nelle immagini su quel rotolo: il guerriero di pelle scura nella scura nave di foggia strana, gli innumere­voli e lunghi remi... e specialmente l’elmo, quell’elmo i cui tanti com­ponenti sembravano messi insieme in modo indissolubile.
Il Gran Sacerdote sollevò il rotolo di steli di papiro e lo di­stese gentilmente con ambedue le mani per dargli un’ulti­ma occhiata.
Il rotolo era antico e logoro: i disegni e le scritte - una volta marcati e brillanti - erano adesso sbiaditi e opachi per la perdurante opera del tempo, anche se la reli­quia era sempre stata conservata con tutte le cure dai suoi tre pre­deces­sori nella grande cassa di quercia, con ogni riguar­do per il tempestivo ricambio delle essenze profumate, per tenere lontano ogni possibile parassita, ogni malefico influsso e - soprattutto - l’acqua. Nel papiro si vedeva chiaramente la grande, imponente mole della na­ve, con lunghe file di remi e più uomini per cia­scun remo. Una grande vela quadrata era gonfia di vento. L’elmo era dipinto di rosso e di verde, descritto dettagliatamente come composto di molte parti unite assieme come fossero una sol­tanto, scuro e in­credibilmente robusto per essere anche così leggero e sottile... La spada vi era soltanto disegnata - in un colore freddo - e non descritta. Ma questa omissione non importava poi gran che, visto che quella stessa spada era proprio lì sulla mensola ricoperta di sughero, nello spes­so­re del muro della capanna, di fronte ai suoi occhi: era la più mi­nacciosa e più re­sistente arma che egli avesse mai visto. Pur così antica era più forte e più pericolosa di qualunque nuova arma il suo popolo potesse forgiare...
Il Gran Sacerdote accuratamente riarroto­lò il papiro sui suoi due supporti di legno, che quindi assicurò tra loro con un laccetto di cuoio. Poi delicatamente lo ripose nella grande arca di legno, tra le altre cose sacre ed importan­ti, con le altre reliquie: i farmaci e i profumi, gli inchiostri, i pre­ziosi scritti con metodi e formule su fogli di lino, un pic­colo e grazioso vaso tutto nero brillante, ricordo di altri luoghi ed al­tri tempi. Sospirò tra sé: “Tutte le ore feriscono e l’ultima uccide... vale forse anche per i ricordi?”.
Chiuse il pesante coperchio della cassa e lo sigillò, con rigorosa lentezza rituale, quindi si al­zò, deciso a cer­care il suo aiu­tante, Norax.
Dove poteva essere mai - adesso - quel gio­vane scriteriato? Dove doveva essere al momento? E soprattutto: dove avrebbe invece preferito essere?  Perché - egli lo sapeva molto bene - era proprio là che lo avrebbe trovato: nel luogo che più gli era gradito.
Si ricordò che Norax a quell’ora avrebbe dovuto controllare la corretta disposi­zione e le giuste propor­zioni delle fascine di legna, dei crogioli, dello stagno e del rame nella fornace sacra, perché tutto fosse pronto per la festa imminen­te.
Il compito  gli era stato dato più perché egli imparasse, piuttosto che non per lasciargli effettuare un reale controllo, che non era proprio necessario in realtà. Quel compito era gradito a Norax, perché gli permetteva di guardare il villaggio dall’alto e di darsi una certa importan­za, per di più senza faticare. Il dovere ed il gradimento, dedusse il Sacerdote, converge­vano nel medesimo luogo: quindi lo avrebbe certamente trovato lì.
Il Sacerdote sorrise benevolmente tra sé, pen­sando al suo scapestrato ma sveglio apprendista che non apparteneva per nascita al sangue della Vera Gente, ma che aveva sa­puto farsi accettare come se tale fosse stato...
Come pochi altri prima di lui...
Lentamente, il sorriso lasciò spazio ad una espressione accigliata, mentre l’urgenza dei problemi nuovamente si impadroniva dei suoi pensieri.
Si scosse, e si accorse di un fasti­dioso senso di secchezza della bocca e della gola. I suoi occhi se­guirono una mensola ricavata nella spessa parete di pietra, fino all’ampolla del suo succo di mirto.
Ne versò una tazza scarsa e si ba­gnò le labbra due volte prima di decidersi ed uscire, accigliato e pensoso, dalla sua capanna ravviandosi i folti baffi grigi col pollice e l’indice, con un gesto assente, la mente altrove...
Subito il fastidioso ronzio degli in­setti lo salutò più forte, mentre la luce diretta del sole rese incerti i suoi primi passi soltanto...
La fornace sacra si er­geva poco discosta, tozza ed annerita, in familiare contra­sto con il tempio, enorme ma snello, pulito, anch’esso rac­chiuso nell’ampio cerchio dell’area sa­cra, già animata dal trambusto delle prime offerte e dei primi offerenti... Il Sacerdote diede lentamente uno sguardo tutto intor­no, scrutando con attenzione... Attraverso l’andirivieni di alcune figure affaccendate nei lavori quotidiani, vide che nessuno era in vista intorno alla capan­na dei raduni - al momento deserta -  nessuno era presso il pozzo sacro...
Alcune donne qua e là erano ancora intente nei loro lavori: in grossi pento­loni fumanti estraevano tannini da cortecce, foglie e galle diverse. Le essenze rare e preziose così ricavate sarebbero servite per poi tingere il lino, la lana, e per conciare le pelli... Altre preparavano insieme, con fare complice, varie ghiottonerie per la festa...
I vecchi erano già appostati a gruppetti nelle loro chiazze d’ombra preferite. Queste erano state guadagnate in tanti anni di doverosa milizia quotidiana sotto il sole, la pioggia, il vento. Ciascuno aveva fatto la propria parte in uno dei vari compiti, tutti in qualche modo egualmente duri e faticosi, che spettano all’uomo da quando ha perso il suo posto alla tavola dorata degli dei...
Alcuni bimbi giocavano rincorrendosi garruli tra le capanne più vicine alla maestosa Porta Grande - dove la cer­chia di mura si sdoppiava - e se ne intravedevano a tratti le figuret­te nude che saettavano qua e là nei giochi di sempre...
Presto - tra qualche giorno appena - avrebbero imitato gli adulti, nel giorno delle brocche: avrebbero assaggiato il loro primo sorso di vino e sarebbero stati consacrati ed iniziati alla vita; avrebbero pronunciato con le loro voci squillanti versi e formule che solo molti anni più tardi avrebbero compreso appieno: “La palla purpurea mi lancia Eros dai riccioli d’oro, e con la fanciulla dai sandali variopinti mi invita a giocare”. Un canto simbolico di vita da vivere, di amore da godere e di morte da accettare, per ciascuno e per tutti, nell’equa distribuzione della millenaria voracità del tempo.
A tutto questo pensava il Sacerdote, guardando quella scena spontanea, piena di attività solerte e di aspettazione per la festa, serena e trepidante insieme.
Alzò la mano destra davanti a sé e pregò sottovoce, quasi proseguendo un quotidiano dialogo, mai veramente inter­rotto per un solo istante:  “Anche per loro dammi il tuo aiuto Grande Madre Ennin - perché essi possano conservare il sorriso felice del gioco e perché le loro grida siano sempre, come ora, soltanto di gioia... E per noi, Tuoi indegni ma fedeli figli, sparsi nella Tua terra generosa”.
Quindi volse, per caso, lo sguardo verso sinistra e scorse un’agile sagoma conosciuta. Era appena ap­parsa sulla fornace sacra, tra due figure più massicce intente al lavoro: “Norax!” - gridò il sacerdote al suo indirizzo - “Ohi, Norax!”.

"Il Popolo dei Nuraghi"


“Sì, forse il seme più remoto e più vero di questa tristezza, della nostra tristezza - perché anch’io, sardo, l’avverto dentro di me e l’ascolto come un’ospite assidua del cuore - è proprio in quella Patria perduta, in quegli altopiani erbosi, in quelle foreste popolate di animali selvatici, in quelle vergini pianure, in quelle riviere incontaminate dall’invasore, in quel paradiso donde fummo scacciati, ma dove è rimasto il cuore della nostra stirpe. E’ nell’indipendenza stroncata brutalmente un giorno dalla barbarie straniera e non più veramente riacquistata”.





                                                          Da    

                                   “Il  Popolo  dei  Nuraghi”                                                    
                                                          di     Marcello  Serra  

Lessi questa frase molti - troppi, ormai - anni fa. Mi colpì profondamente, perché dice moltissimo con pochissime, accorate parole. Ne scrissi un libro. Un libro ragazzino e sognante, in adorazione, appunto, di un sogno bambino: "la Terra dei Mucchi di Pietre".